LA FAVOLA PIETRIFICATA DI ARRIGO ARMIERI
di Marilena Pasquali
Arrigo Armieri racconta storie di uomini, anzi dell'Uomo: ne canta radici e speranze, gli dei congelati e le corrosioni aspre, i giardini incantati e le rovine pietrificate. Inesauribile è in lui il bisogno di narrare questo mondo antichissimo e sempre meraviglioso, di costruire metafore dell'umano che possono aiutarci a meglio comprendere noi stessi e ciò che ci circonda. Ed allo stesso modo l'artista compone poesie, frammenti lirici ricolmi di luci e di immagini come le sue sculture, limpidi inni elevati all'integrità dell'uomo e angosciate denuncie della sua finitezza, delle sue cadute. Parole e materia, luce intensa e baratri d'ombra: tutto vale al gioco dell'artista che si rispecchia in una dimensione miniaturizzata, come avvolta nel palmo della mano per meglio osservarne e coglierne le ragioni interiori, le più impercettibili vibrazioni d'atmosfera, le forze più segrete e sotterranee. Se si osserva dall'esterno, e piuttosto dall'alto, questo universo di presenze vive e di simboli pietrificati, se ne può essere al tempo stesso interpreti e spettatori, partecipare della sua tensione e valutarne lucidamente sostanza e fragilità. Un profondo senso vitale regge tutta l'opera di Armieri che, rendendosi conto del pericolo insito in ogni impetuosità, si sforza in ogni modo di raffrenare gli impulsi, di dare ordine e rigore al caos vitalistico, di imbrigliare ogni fisicità in forme leggere, avvolte nell'aura del sogno, come spogliate del peso della materia e pure in essa plasmate. «Simulacri d'architettura liquida che s'acquietano in ritmiche ondulazioni»: questo appare — per usare le parole dello stesso artista — il suo mondo, in cui ogni presenza respira di una vita autonoma e pulsante sottolineata dalla luce portatrice di fremiti e di opacità, di angoli ombrosi e di squilli cromatici. Due sembrano i poli del suo patrimonio di immagini, a lungo studiato ed accarezzato, fatto proprio con il lavoro di ogni giorno e con la ricerca insistita dentro di sé. Da un lato, le forme animali — uccelli marini, formiche, conigli, ranocchi —, creature di un bestiario fantastico vissuto come nel mito mediterraneo in quanto metafora del reale, apologo che non richiede spiegazioni razionali per essere compreso. Dall'altro, solidi splendenti di lucori minerali, altari e piattaforme da cui si alza un canto di vita: segni del tempo, vettori spaziali, tracce di un mondo già passato o tutto da inventare, corpi celesti impenetrabili e vibranti. Tra lo stormire di fronde assorte in aure primaverili e battere di orde che lambiscono in filigrana di spume le rovine del futuro vivono le sue creature, con una felicità di invenzione ed una ricchezza di possibilità evocative che fanno ben comprendere come per l'artista questo sia un gioco serissimo, una favola che è ricerca di verità, è bisogno di capire e di ritrovare la pienezza del sé. L'indagine non si ferma e scava sempre più dentro la forma per attingere ad una purezza rigorosa, ad una essenzializzazione del racconto che, nelle opere più recenti, non ha più necessità di marcati elementi esplicativi per reggersi su poche note nettissime, tenute sul filo acuto di un diapason. Il senso dell'invenzione è sottolineato da una maestria compositiva e tecnica che rivela l'amore dell'artista per la pulizia della materia, per la sua morbidezza o accentuata scabrosità di superficie, per le potenzialità d'espressione in essa trattenute. Nell'attuale ricerca di rarefazione e di silenzio il racconto non si interrompe ed anzi si fa sempre più ricco di suggestioni. I simulacri rimandano a divinità sconosciute ed amate, le forme animali e vegetali divengono frammenti preziosi del sogno, l'aria circola libera e cantante sulle asperità della materia. E l'artista è con le sue creature, vive con loro e di loro ed invita chi osserva ad entrare con gioia nel suo universo di illusione, in cui il reale si riflette come in uno specchio d'acqua pura.
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